Finché la barca va




Ci sono avvenimenti che ci aprono gli occhi su fenomeni che passano inosservati. Per esempio, guardiamo la nave portacontainer che si è intraversata nel canale di Suez, come un Tir sull’autostrada tra Pian del Voglio e Roncobilaccio.
Stavolta però non è bastata qualche ora a ripristinare tutto, ma c'è voluta una settimana, un tempo in cui ci siamo resi conto ancora una volta (qualcuno ricorda il vulcano islandese?) di come il nostro mondo sia su un precario equilibrio: pensiamo alle immediate ripercussioni sul traffico marittimo, la disponibilità di merci e combustibili e l'aumento del loro prezzo: il 90% delle merci viaggia via mare.
Sull’argomento mi è capitato di guardare un documentario molto interessante, visibile in streaming su Raiplay all’interno di una trasmissione (dal minuto 10’37” a 1h 05’00”), che racconta come la globalizzazione dei commerci si basi, oltre che sulla manodopera, anche sui trasporti a basso costo, permettendosi di vendere un abito cucito in Bangladesh con componenti provenienti da tutto il mondo e dandoci la possibilità di cambiare abito con pochi euro.
Già, paghiamo pochi euro per una camicia, ma tutti gli altri costi, sociali e ambientali, chi li pagherà? Per tornare al trasporto marittimo, una nave di quelle consuma 200 tonnellate di carburante al giorno e, stando a quanto detto nel documentario, di pessima qualità.
Dal gennaio 2020 è stato messo l’obbligo di usare carburanti con al massimo lo 0,5% di zolfo. Inoltre, l’Imo (l’organizzazione Onu che si occupa di trasporto marittimo) ha preso l’impegno di dimezzare le emissioni di CO2 del trasporto merci entro il 2050. Da tener presente che, chissà perché, il trasporto marittimo non è vincolato dagli accordi sul clima.
Non sottovalutiamolo però, perché nella Ue le emissioni da trasporto aereo sono paragonabili a quelle del trasporto marittimo, ma ci preoccupiamo solo il primo.
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